“Diaz, non lavate questo sangue” è il secondo film uscito in poco tempo su una vicenda della recente storia italiana su cui ancora non si è potuta mettere la parola fine. Segue infatti a “Romanzo di una strage”, che trattava della strage di piazza Fontana e della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli e del commissario Luigi Calabresi.
Le due pellicole vogliono ricordarci che la ferita è aperta, alcuni punti sono rimasti oscuri, i colpevoli non sono stati, o non tutti, puniti. Entrambe cercando di dare una propria versione dei fatti muovendo da documenti: deposizioni nel caso di “Diaz”, il film sugli eventi alla scuola Diaz e alla caserma di Bolzaneto nel luglio del G8 di Genova, il libro “La strage” di Vito Bruschini per “Romanzo di una strage”.
Tutte e due sono state molto contestate ancor prima di essere distribuite nelle sale.
“Romanzo di una strage”, di Marco Tullio Giordana, si muove in ordine cronologico in tre ambienti: quello milanese (la questura, Calabresi, Pinelli, gli anarchichi, il processo), quello romano (il governo MORO e il presiente Saragat) e quello veneto (Ordine Nuovo), il tutto in modo molto classico ed ordinato. “Diaz”, del regista Daniele Vicari, presenta i fatti coralmente, senza un protagonista definito (seppure il poliziotto, che è la trasposizione filmica del vicequestore Michelangelo Fournier, e Alma, la ragazza tedesca fatta spogliare in Bolzaneto, abbiano un rilievo maggiore). In scena ci sono esponenti del Social Forum, poliziotti, carabinieri, un giornalista, un pensionato e due black block francesi. Procede tra multiprospettive, digressioni, acronicità e indugiando anche nel ri-raccontare gli stessi episodi, procedendo per accumulazione.
Vicari usa il momento del lancio della bottiglia verso la camionetta dei carabinieri come cesura, momento cui continuamente si torna quando si cambia punto di vista.
La bottiglia indica l’esplosione della violenza.
La Fandango ha già prodotto “Black Block” di Carlo Bachschmidt di cui “Diaz” è il corollario, dato che certo materiale viene proprio dalle testimonianze raccolte nel documentario. Ad esempio, la testimonianza di Lena (“Black Block”) rivive nella sequenza in cui la ragazza tedesca viene scaraventata contro gli attaccapanni (“Diaz”).
L’opera ha certamente un grande impatto emotivo, ottenuto senza esagerare o cadere nel morboso.
Non ci si sofferma sulle botte durante l’irruzione o la prigionia. Ci sono, è necessario che ci siano, ma la scena avrebbe potuto essere splatter. Le torture a Bolzaneto non si vedono. Non si va oltre alle X disegnate sulla faccia dei fermati, o al ragazzo costretto a fare il cane e ad Alma, spogliata e derisa di fronte ai poliziotti. E’ sufficiente. Non vediamo le torture. Ma sappiamo che ci sono state. Vicari ha scelto di filmare in modo iondeggiante, stando molto vicino agli attori, dandoci un senso di soffocamento.
Vittorio Agnoletto, che ai tempi era portavoce del Social Forum di Genova, ha criticato il film a causa dell’assenza delle istituzioni politiche. Il tacere del mondo al di là della caserma e della scuola rende difficile capire perché i poliziotti caricavano, o perché 300 mila manifestanti erano a Genova in quel luglio.
Adriano Sofri, che è stato incarcertato per l’omicidio Calabresi, ah criticato “Romanzo di una strage” perché sposa due tesi non certe, ovvero che il commissario Calabresi non era nella stanza nel momento in cui Pinelli venne gettato (nel film la scena non si vede, ma si intuisce che non si sarebbe buttato da sé) giù dalla finestra, e che le bombe alla Banca dell’Agricoltura erano due e non una. Il personaggio di Calabresi, interpretato da Valerio Mastrandea, è circonfuso di santità, certamente dovuta anche alla sua tragica morte, che ha ammorbidito il ricordo di lui, ma emerge monodimensionale: integerrimo ma poco caldo, coi capelli e i vestiti perfetti e mai una frase fuori posto, a differenza del Pinelli di Pierfrancersco Favino, tenero, paterno e un po’ goffo nelle sue giacche un troppo corte e la camminata gobba.
Anche “Diaz” ha le sue risposte da dare. Per Vicari, i black block alla Diaz c’erano. Questo particolare motiva – seppur non giustifica – la violenza della polizia.
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